Negli ultimi anni gli spazi di tutela dei lavoratori interessati da fenomeni di abuso di contratti a termine sono stati ampliati ammettendo la possibilità di trasformazione del contratto a termine illegittimo anche nel lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni: ciò è stato possibile sulla base di un’interpretazione evolutiva della norma, nel più ampio quadro delineato dalla direttiva1999/70/CE, e grazie alla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea la quale, con una pluralità di sentenze – causa C-302/11; causa C-11/10; cause riunite da C-378/07 a C-380/07 (Angelidaki e altri); cause C-180/2004 (Vassallo), causa C-53/2004 (Marrosu e Sardino); causa C-212/04 (Adeneler e altri); causa C-3/2010 (Affatato) – ha richiamato l’Italia al rispetto del principio di parità di trattamento tra settore pubblico e privato.
In aderenza alle indicazioni fornite dalla giurisprudenza comunitaria, alcuni giudici nazionali (Trib. Trani 15 marzo 2012, n. 1545; Trib. Trani 18 giugno 2011; Trib. Napoli 18 giugno 2011; Trib. Napoli 16 giugno 2011; Trib. Livorno 25 gennaio 2011; Trib. Siena 13 dicembre 2010, n. 263; Trib. Livorno 26 novembre 2010; Trib. Siena 27 settembre 2010, n. 699), con riferimento all’utilizzo reiterato di contratti a termine nella P.A., hanno ritenuto che la sola tutela risarcitoria prevista dall’art. 36, comma 5, D.Lgs. n. 165/2001 per le ipotesi di illegittima apposizione del termine non può essere considerata una tutela effettiva, in quanto “debolee pertanto non conforme al diritto comunitario, poiché le condizioni di applicazione nonché l’applicazione effettiva delle relative disposizioni di diritto interno ne fanno uno strumento inadeguato a prevenire e, se del caso, a sanzionare l’utilizzo abusivo da parte della pubblica amministrazione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato successivi” (Trib. Siena 27 settembre 2010, n. 699): secondo il giudice senese, poiché la giurisprudenza interna successiva alle pronunce comunitarie avrebbe messo in luce l’inadeguatezza della sanzione meramente risarcitoria, l’unica misura effettivamente adeguata resterebbe la conversione del contratto, anche nel pubblico impiego (oltre al risarcimento del danno subito per l’illegittima apposizione del termine). La ratio di tale interpretazione sarebbe quella di «rompere quell’argine di rispetto di un privilegio del quale sono depositarie le pubbliche amministrazioni, consistente quasi in una licenza di precarizzare».
Recentemente, la Corte di Cassazione con sentenza n. 26951 del 2 dicembre 2013 ha riconosciuto il diritto al risarcimento danni in favore di una lavoratrice assunta a tempo determinato in un’Azienda Sanitaria, affermando un importante principio di diritto: anche ammesso che sia compatibile con la direttiva europea “una normativa nazionale che escluda la conversione in contratto a tempo indeterminato nel settore del pubblico impiego”, è necessario che “tale normativa contenga un’altra misura effettiva destinata ad evitare e, del caso, a sanzionare un utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato”. La Corte ha applicato un principio già sancito dalla CGUE nella sentenza del 07.09.2006 secondo cui “il lavoratore che sia stato assunto illegittimamente ha diritto ad essere risarcito per effetto della violazione delle norme imperative in materia”.
Più rivoluzionaria l’ordinanza Papalia (causa C-50/13), resa dalla Corte di Giustizia Ue il 12 dicembre 2013 insieme alla sentenza Carratù (causa C-361/12): entrambe non potranno passare inosservate in termini di applicazione da parte dello Stato e della giustizia italiana.
Nel caso Papalia, la domanda di pronuncia pregiudiziale – vertente sull’interpretazione della clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP – è stata presentata nell’ambito di una controversia tra un maestro “a tempo” della banda municipale e il Comune di Aosta, in merito al risarcimento del danno sofferto a causa del ricorso abusivo, da parte del comune, alla stipula di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato.
Come noto, l’articolo 36 del decreto legislativo del 30 marzo 2001, n.165 dispone al comma 5 il divieto di costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le pubbliche amministrazioni in caso di violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori.
Affinché una normativa nazionale che vieta in modo assoluto, nel settore pubblico, la trasformazione in contratto di lavoro a tempo indeterminato di una successione di contratti a termine, possa essere considerata conforme all’accordo quadro, l’ordinamento giuridico interno dello Stato membro interessato deve prevedere un’altra misura effettiva per evitare, ed eventualmente sanzionare, l’utilizzo abusivo di contratti di lavoro a tempo determinato.
A questo proposito la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro impone agli Stati membri l’adozione effettiva e vincolante di almeno una fra le misure elencate in tale disposizione, in assenza di misure equivalenti nell’ordinamento nazionale. Tali misure attengono, rispettivamente, a ragioni obiettive che giustificano il rinnovo di tali contratti, alla durata massima totale degli stessi contratti o rapporti di lavoro successivi ed al numero dei rinnovi.
Inoltre, quando il diritto dell’Unione non prevede sanzioni specifiche nel caso in cui siano stati accertati abusi, spetta alle autorità nazionali adottare misure che devono rivestire un carattere proporzionato, sufficientemente effettivo e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate in attuazione dell’accordo quadro.
Anche se, in assenza di una regolamentazione dell’Unione in materia, le modalità di attuazione di siffatte norme rientrano nell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri, esse non devono tuttavia essere meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza), né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione (principio di effettività).
Ne consegue che, quando si verifica un ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, si deve poter applicare una misura che presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela dei lavoratori al fine di sanzionare tale abuso ed eliminare le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione. Infatti, secondo l’articolo 2, primo comma, della direttiva 1999/70, gli Stati membri devono «prendere tutte le disposizioni necessarie per essere sempre in grado di garantire i risultati prescritti dalla [detta] direttiva».
Pertanto, l’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, dev’essere interpretato nel senso che esso osta ai provvedimenti previsti da una normativa nazionale, quale quella oggetto del procedimento principale, la quale, nell’ipotesi di utilizzo abusivo, da parte di un datore di lavoro pubblico, di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, preveda soltanto il diritto, per il lavoratore interessato, di ottenere il risarcimento del danno che egli reputi di aver sofferto a causa di ciò, restando esclusa qualsiasi trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, quando il diritto a detto risarcimento è subordinato all’obbligo, gravante su detto lavoratore, di fornire la prova di aver dovuto rinunciare a migliori opportunità di impiego, se detto obbligo ha come effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio, da parte del citato lavoratore, dei diritti conferiti dall’ordinamento dell’Unione.
Spetta al giudice del rinvio valutare in che misura le disposizioni di diritto nazionale volte a sanzionare il ricorso abusivo, da parte della pubblica amministrazione, a una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato siano conformi a questi principi.
Nel caso Carratù la ricorrente era stata assunta con contratto a tempo determinato – dal 4 giugno al 15 settembre 2004 – da Poste Italiane SpA.
Il contratto, firmato dalla ricorrente il 4 giugno 2004, era stato restituito, con la sottoscrizione di Poste Italiane, il 15 giugno 2004.
L’apposizione del termine al contratto era giustificata, in applicazione dell’articolo 1 del decreto legislativo n. 368/2001, dall’esigenza di provvedere alla sostituzione del personale assente nel periodo delle vacanze estive: infatti, l’articolo 1 prevede l’utilizzo di un contratto a tempo determinato esclusivamente a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo. Un contratto del genere si rivela invalido se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale siano specificate le ragioni: copia dell’atto scritto deve essere consegnata dal datore di lavoro al lavoratore entro cinque giorni lavorativi dall’inizio della prestazione.
Ritenendo la sua assunzione illecita e priva di effetti, la sig.ra Carratù ha contestato l’utilizzo di un contratto di lavoro a tempo determinato, dal momento che tale contratto è stato concluso senza indicare l’identità dei lavoratori da sostituire, né la durata della loro assenza né tantomeno il tipo specifico di ragioni sostitutive.
In conclusione, per la Corte la clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, inserito in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che può essere fatta valere direttamente nei confronti di un ente pubblico, quale Poste Italiane SpA.
La clausola 4, punto 1, del medesimo accordo quadro sul lavoro a tempo determinato deve essere interpretata nel senso che la nozione di «condizioni di lavoro» include l’indennità che un datore di lavoro è tenuto a versare ad un lavoratore, a causa dell’illecita apposizione di un termine al contratto di lavoro.
Sebbene il menzionato accordo quadro non osti a che gli Stati membri introducano un trattamento più favorevole rispetto a quello previsto dall’accordo stesso per i lavoratori a tempo determinato, la clausola 4, punto 1, di detto accordo quadro deve essere interpretata nel senso che non impone di trattare in maniera identica l’indennità corrisposta in caso di illecita apposizione di un termine ad un contratto di lavoro e quella versata in caso di illecita interruzione di un contratto di lavoro a tempo indeterminato.
Ora spetta ai Giudici di merito italiani aprire concrete prospettive di tutela per i precari della P.A dando piena ed effettiva applicazione alle recenti pronunce della Corte di Giustizia Ue.
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