1. Ringrazio gli organizzatori di quest’incontro per avermi stimolato ad occuparmi di un argomento – la sinteticità degli atti difensivi – che avevo sinora quasi del tutto ignorato per una sostanziale ragione pratica: nel redigere ricorsi e memorie, sono sempre stato alquanto sintetico (come i miei maestri mi hanno insegnato sin dai primi giorni di pratica) e semmai ho talvolta subìto la prolissità di alcuni colleghi avversari, peraltro non sempre del libero foro (da ultimo, alcuni mesi fa, ho dovuto replicare ad un atto di citazione della procura regionale della Corte dei conti – non dico quale – di ben 280 pagine, nelle quali erano stati travasati, con il classico “copia-incolla”, interi documenti dell’istruttoria svolta prima e dopo l’invito a dedurre, che peraltro già si aggirava intorno alle 200 pagine).
Ciò premesso, per restare fedele al titolo della tavola rotonda, che ci sollecita a partire dai principi per giungere all’analisi della recentissima disciplina positiva, proverò a svolgere alcune considerazioni sulla ratio del recente decreto del Presidente del Consiglio di Stato che disciplina la dimensione degli atti difensivi nei giudizi concernenti le procedure di affidamento degli appalti pubblici e sull’art. 120, comma 6, c.p.a., come novellato nel 2014.
Mi perdonerete se, per non violare il dovere di sinteticità (che, pur in assenza di norme scritte, incombe anche su chi interviene in una tavola rotonda), risulterò poco… chiaro, come sovente accade, nonostante il proposito legislativo di coniugare sinteticità e chiarezza, per le ragioni che non mancherò di illustrare.
2. Va subito notato che, allo stato, il codice di procedura civile – che ha rappresentato sicuramente un punto di riferimento per i redattori del codice del processo amministrativo – non contiene riferimenti espliciti alla sinteticità degli atti difensivi, limitandosi a prescrivere, con riguardo al contenuto del ricorso per cassazione, «l’esposizione sommaria dei fatti di causa» (art. 366, comma 1, n. 3) e, con riguardo alle comparse, che siano «scritte in carattere chiaro e facilmente leggibile» (art. 111 disp. att., che faculta la parte a «rifiutarsi di riceverle» ed il cancelliere a «non consentire che s’inseriscano nel fascicolo»). Invero, l’articolato consegnato al Ministro della Giustizia, nel dicembre 2013, dalla commissione ministeriale presieduta dal prof. Vaccarella prevede che, nell’art. 121 c.p.c., venga inserito un comma 2 del seguente tenore: «Il giudice e le parti redigono gli atti processuali in maniera sintetica». I lavori di questa commissione, però, sono stati sostanzialmente ignorati dal Ministro che l’aveva nominata, essendo stato diramato, pochi giorni prima della formale consegna degli elaborati, il testo del «collegato giustizia» alla legge di stabilità per il 2014 (di questa curiosa vicenda riferisce B. Capponi).
Com’è noto, invece, il codice del processo amministrativo prevede espressamente che «[i]l giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica» (art. 3, comma 2), che del rispetto dei suddetti principi di chiarezza e sinteticità il giudice deve tener conto in sede di liquidazione delle spese del giudizio (art. 26, comma 1, come modificato dal secondo decreto correttivo), che la trattazione orale della domanda cautelare si svolge «in modo sintetico» (art. 55, comma 7) e che, nell’udienza pubblica, «le parti possono discutere sinteticamente» (art. 73, comma 2). Poco più di un anno fa, poi, lo stesso codice ha previsto che, nello specialissimo rito appalti, «[a]l fine di consentire lo spedito svolgimento del giudizio in coerenza con il principio di sinteticità di cui all’art. 3, comma 2 [evidentemente, il legislatore non si preoccupa più di tanto del rispetto del principio di chiarezza, n.d.r.], le parti contengono le dimensioni del ricorso e degli altri atti difensivi nei termini stabiliti con decreto del Presidente del Consiglio di Stato» (art. 120, comma 6, come sostituito dal decreto legge n. 90 del 2014, convertito nella legge n. 114 dello stesso anno).
E’ parimenti a tutti noto, peraltro, che già all’indomani dell’entrata in vigore del codice il Presidente De Lise, con una nota indirizzata al prof. Abbamonte, presidente della Società Italiana Avvocati Amministrativisti, aveva invitato il Foro a contribuire al raggiungimento dell’obiettivo della riduzione dei tempi di definizione delle controversie «depositando ricorsi e, in genere, scritti difensivi in un numero contenuto di pagine, che potrebbero essere quantificate, al massimo, in 20-25» e, nel caso in cui la complessità della controversia richiedesse «un numero maggiore di pagine», formulando all’inizio di ogni atto «una distinta ed evidenziata sintesi del contenuto dell’atto stesso, di non più di una cinquantina di righe (un paio di pagine)»; fermo restando che, nelle memorie, l’avvocato avrebbe dovuto «limitarsi […] ad un mero richiamo di quanto già scritto nell’atto introduttivo del giudizio» (si alludeva, evidentemente, alla memoria depositata dal ricorrente).
Circa un paio d’anni fa, il Primo Presidente della Corte di cassazione, traendo verosimilmente spunto da tale iniziativa, aveva a sua volta indirizzato al prof. Alpa, presidente del Consiglio Nazionale Forense, una nota in cui raccomandava agli avvocati, al fine di consentire ai giudici di legittimità di redigere sentenze chiare e sintetiche (in ossequio ai dettami dell’art. 132, comma 2, n. 4), c.p.c.), di contenere ricorsi, controricorsi e memorie entro «un tetto di 20 pagine» e, «[n]el caso ciò non fosse possibile, per l’eccezionale complessità della fattispecie», a corredare l’atto di «un riassunto in non più di 2-3 pagine»; ferma restando l’opportunità che «ad ogni atto, quale ne sia l’estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura». Analoghe raccomandazioni erano poi state rivolte al Foro da giudici di merito (si veda, ad es., il comunicato della Sez. A, specializzata in materia di impresa, del Tribunale civile di Milano, che «solo in relazione a casi di particolare complessità» consente di elevare il suddetto tetto massimo di 20 pagine «a 30 e comunque non oltre le 50»; ciò, peraltro, soltanto per gli scritti introduttivi e le comparse conclusionali, mentre per le memorie ex art. 183 c.p.c. e le memorie di replica alle conclusionali non è in alcun caso consentito «superare le 10-15 pagine»).
Forse non tutti sanno che, circa un mese prima che venisse adottato il decreto del Presidente del Consiglio di Stato previsto dal novellato art. 120, comma 6, c.p.a., e proprio pochi giorni dopo che il Consiglio Nazionale Forense, nel formulare le proprie osservazioni sulla bozza di decreto presidenziale, aveva manifestato «la propria contrarietà a tutte le forme di regolamentazione in via normativa delle dimensioni del ricorso e degli atti difensivi, ritenendo che esse siano in contrasto con il principio di efficacia ed effettività dei diritti della difesa (art. 24 Cost.)», il Presidente del T.a.r. Toscana aveva diramato un avviso nel quale invitava gli avvocati non soltanto a contenere il numero delle pagine degli atti difensivi «in modo da assicurare il predetto principio di chiarezza e sinteticità (tendenzialmente non oltre 25 pagine)», ma anche a redigere «ogni pagina in modo da non superare le 24 righe, con caratteri ben leggibili e non inferiori a p. 12», a non depositare «copie sbiadite o di difficile lettura», ad evitare la «stampa “fronte-retro”» per le copie destinate a presidente e relatore ed a non abusare «della tecnica informatica del “copia e incolla”».
Questa la cornice normativa in cui, il 25 maggio scorso, si è inserito il decreto del Presidente del Consiglio di Stato che, con riguardo ai giudizi concernenti le procedure di affidamento degli appalti pubblici, fissa in 30 il numero massimo di pagine degli atti difensivi, ad eccezione delle domande cautelari proposte autonomamente (ivi compresa la domanda di sospensione della sentenza del Consiglio di Stato impugnata in Cassazione, di cui all’art. 111 c.p.a.), delle repliche, degli atti d’intervento e delle memorie delle parti non necessarie, da contenere in 10 pagine; il tutto attenendosi a rigorosissimi criteri redazionali: foglio A4; «caratteri di tipo corrente […] e di dimensioni di almeno 12 pt nel testo e 10 pt nelle note a pie’ di pagina, con un’interlinea di 1,5 e margini orizzontali e verticali di almeno cm. 2,5 (in alto, in basso, a sinistra e a destra della pagina)». Insomma, roba che nemmeno la più pignola casa editrice si sogna d’imporre all’autore di un libro o di un saggio da pubblicare in una rivista.
3. L’excursus normativo dianzi descritto è stato, peraltro, inframmezzato da una ragguardevole elaborazione giurisprudenziale, della quale è opportuno tenere conto nel commentare sia l’art. 120, comma 6, c.p.a. che il decreto presidenziale che, un mese e mezzo fa, vi ha dato attuazione.
Va, in primis, segnalata, non foss’altro perché menziona espressamente l’art. 3, comma 2, c.p.a., una pronuncia della Cassazione, che, utilizzando l’unico addentellato normativo fornito dal codice di rito, cioè l’art. 366, ha dichiarato inammissibile un ricorso per cassazione carente della necessaria «sintesi funzionale alla piena comprensione e valutazione delle censure mosse alla sentenza impugnata», affermando che, «riproducendo il fatto come riportato nella sentenza impugnata, il ricorrente assume il rischio sia di una rappresentazione non sufficientemente chiara sia della sua inadeguatezza funzionale in relazione ai motivi per i quali la sentenza stessa è censurata. La riproduzione totale o parziale della sentenza impugnata può dunque ritenersi idonea ad integrare il requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 3, soltanto quando se ne evinca una chiara esposizione dei fatti rilevanti alla comprensione dei motivi di ricorso (Cass., n. 5836/2011)» (Sez. un., 11 aprile 2012, n. 5698). In sostanza, neanche riportando il fatto come lo riporta la sentenza impugnata – come sono soliti fare la gran parte degli avvocati – si è certi di superare il rigorosissimo filtro di ammissibilità che caratterizza il giudizio di cassazione.
Sempre per restare alla giurisprudenza civile, forse meno nota all’uditorio, meritano attenzione anche una sentenza di merito secondo la quale, in presenza di «atti sovrabbondanti in violazione del principio di sinteticità, il giudice può tenere conto del comportamento in sede di liquidazione delle spese processuali, ex artt. 91, 92 c.p.c.» (Trib. Milano, 1 ottobre 2013), ed un’ulteriore pronuncia della Cassazione che, in presenza di un ricorso di oltre 100 pagine, ottenute «attraverso una sovrabbondante riproduzione degli atti processuali, mentre alla esposizione dei motivi di ricorso sono dedicate le ultime dodici pagine, che da sole sarebbero state del tutto proporzionate al tipo di censure proposte», ha ravvisato la violazione, tra l’altro, del «canone della chiarezza e della sinteticità espositiva [che] rappresenta l’adempimento di un preciso dovere processuale il cui mancato rispetto, da parte del ricorrente per cassazione, lo espone al rischio di una declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione» (Sez. lav., 30 settembre 2014, n. 20589).
Ben più nota è la giurisprudenza amministrativa, nel cui ambito ci si limita a ricordare, in ordine squisitamente cronologico:
– Cons. Giust. Amm. Reg. sic., 19 aprile 2012, n. 395, che, in presenza di un appello di 53 pagine di oltre 30 righe ciascuna, «palesemente non proporzionate al livello di complessità della causa», ottenute attraverso «un evidente abuso della funzione di c.d. “copia e incolla”, applicata ad atti già necessariamente presenti nel fascicolo (ricorso di primo grado e sentenza appellata)» e connotate da «una frequente ripetizione di concetti già esposti», ha liquidato le spese facendo applicazione dell’art. 96, comma 3, c.p.c., richiamato dall’art. 26, comma 1, c.p.a.;
– Cons. St., Sez. V, 11 giugno 2013, n. 3210, che, pur ritenendo astrattamente applicabile anche in caso di violazione del dovere di sinteticità la sanzione prevista dall’art. 26, comma 2, c.p.a., nel testo novellato dal primo decreto correttivo, ha, in concreto, ritenuto che un ricorso di 30 pagine e due memorie illustrative di 10 e 19 pagine, «benchè sovrabbondanti, non costituis[sero] ancora pienamente – allo stato dell’evoluzione giurisprudenziale sul punto – un’ipotesi di violazione del predetto dovere di sinteticità»;
– Cons. St., Sez. III, 19 marzo 2014, n. 1361, che, pur accogliendo l’appello, ha disposto l’integrale compensazione delle spese del doppio grado di giudizio «considerato che l’appellante, proponendo un appello di ben 33 pagine contro una sentenza di sole 5, è venuta meno al fondamentale dovere di sinteticità». In tal caso, è significativo che il combinato disposto degli artt. 26 c.p.a. e 92, comma 2, c.p.c. sia stato applicato alla parte vittoriosa, in contrasto con la corrente di pensiero che lo ritiene, invece, applicabile soltanto nei confronti del soccombente (in tal senso, ad es., B. Capponi, secondo cui «siamo dinanzi a una versione giudiziale dell’antico “guai ai vinti”, mentre per l’altra parte continuerà ad applicarsi l’altrettanto vecchia regola del generale vittorioso, che non deve rendere il conto delle pallottole sparate»);
– T.A.R. Sicilia-Palermo, Sez. I, 8 luglio 2014, n. 1787, secondo cui, in mancanza di un’espressa sanzione codicistica per la violazione del principio di sinteticità degli atti di parte, «il giudice, per assicurare, a valle, il rispetto del principio di sinteticità della sentenza, deve necessariamente circoscrivere la materia del contendere ai soli punti controversi (anche alla luce delle indicazioni già fornite in sede cautelare e all’esito dell’attività istruttoria eventualmente disposta); deve poi fare contemporanea applicazione dei principi dell’acquiescenza e dell’assorbimento dei motivi non esaminati»;
– Cons. St., Sez. VI, 22 luglio 2014, n. 3903, che, nel lodevole intento di contemperare le contrapposte esigenze, ritiene necessario temperare il rigore dell’onere di specificità dei motivi d’appello (art. 101, comma 1, c.p.a.) attraverso una sua lettura coordinata con il principio di sinteticità;
– Cons. Giust. Amm. Reg. sic., ord. 15 settembre 2014, n. 536, che, di fronte ad un appello di ben 127 pagine (relate di notifica escluse!), con circa 28-30 righe per pagina, ottenute in gran parte con «un evidente abuso della funzione di c.d. “copia e incolla”», ha invitato l’appellante a presentare una memoria riepilogativa redatta secondo i seguenti criteri: non oltre 20 pagine con al massimo 25 righe per pagina; formato A4; stampa su un solo fronte; uso di caratteri di tipo corrente; interlinee e margini adeguati.
4. Cotanto attivismo giurisprudenziale aveva finito per stimolare sia un nuovo intervento del legislatore, da più parti ritenuto colpevole di aver inserito nel codice del processo amministrativo una norma senza sanzione, sia il dibattito dottrinale. Di quest’ultimo, tuttavia, non possiamo dar adeguatamente conto: ce l’impedisce proprio il dovere di essere, per quanto possibile, sintetici. Preferiamo, dunque, bypassare i commenti registrati prima della decretazione d’urgenza di un anno fa e soffermarci un po’ sul novellato art. 120, comma 6, c.p.a. e sul decreto del Presidente del Consiglio di Stato del 25 maggio scorso.
Va detto subito che, ancorchè la prassi di impartire agli avvocati istruzioni in ordine alla tecnica di redazione degli atti difensivi, individuandone analiticamente la lunghezza massima, sia da tempo invalsa anche a livello sovranazionale (si veda, ad es., l’art. 47 del Regolamento, richiamato dal Primo Presidente della Corte di cassazione con riferimento ai giudizi di competenza della C.E.D.U.), la scelta da ultimo effettuata con riguardo al processo amministrativo suscita molte perplessità.
Sia ben chiaro, il problema esiste e va risolto: frequenti sono gli atti prolissi, spesso infarciti da operazioni di «taglia e cuci» (lo segnalava già tra anni fa G. Leone: «sovente si assiste ad inutili e dispendiosi esercizi, che andrebbero sintetizzati in ben meno delle canoniche venti pagine auspicate dal Presidente del Consiglio di Stato»).
E’ il metodo utilizzato dal legislatore per combattere la prolissità che, però, suscita più di un dubbio.
Si ha la sensazione, innanzitutto, che, a differenza dell’art. 39, dedicato alla semplificazione degli oneri formali nella partecipazione alle procedure di affidamento, che muove dal convincimento – a nostro avviso, pienamente condivisibile – che «una seria deflazione e accelerazione del contenzioso in materia di affidamenti di contratti pubblici parte, in primo luogo, da una chiara semplificazione delle procedure sostanziali» (ne abbiamo parlato, in questa stessa sala, nel novembre scorso), l’art. 40 del decreto legge n. 90 del 2014, che ha sostituito il comma 6 dell’art. 120 c.p.a., non sia stato preceduto dalla necessaria analisi preventiva delle ragioni sottostanti al mancato rispetto del dovere di sinteticità. Così come, per approntare le adeguate misure di semplificazione procedimentale, il legislatore ha prima individuato le ragioni del pregresso eccesso di complicazione, adesso, al fine di trovare strumenti idonei a garantire sinteticità e chiarezza degli atti processuali, egli avrebbe dovuto prima indagare sulle cause della prolissità ed oscurità degli atti stessi. Se l’avesse fatto, si sarebbe probabilmente accorto che tale fenomeno costituisce in gran parte conseguenza indotta di regole processuali, a dir poco opinabili, introdotte da precedenti interventi legislativi o da deprecabili prassi giurisprudenziali; si vuol dire che:
– in un processo ispirato al principio di preclusione, è fatale che gli atti introduttivi siano, di norma, più ampi di quelli che introducano un giudizio nel quale sia sempre consentita la modificabilità in corso di causa del thema decidendum e del thema probandum (A. Panzarola);
– se è assai difficile, per chi proponga un ricorso per cassazione, rispettare il principio di autosufficienza (specie se inteso in senso «massimalista», cioè in senso ben diverso da quello in cui mostra d’intenderlo il Primo Presidente della Corte di cassazione nella sua raccomandazione del 17 giugno 2013) senza aumentare il numero di pagine del ricorso (si chiede al riguardo A. Panzarola come possa pretendersi la concisione se si esige – come fa Cass., Sez. III, 18 marzo 2014, n. 6188 – che il ricorrente sia tenuto addirittura ad illustrare nel ricorso la situazione che determina l’assoggettamento del suo diritto d’impugnazione alla sospensione dei termini per le ferie d’agosto, non essendo ritenute all’uopo sufficienti le memorie di cui agli artt. 378 e 380-bis c.p.c.), altrettanto arduo è, per chi proponga appello innanzi al Consiglio di Stato, contemperare dovere di sinteticità ed onere di specificità dei motivi d’impugnazione. In proposito, sarebbe stato sufficiente volgere lo sguardo al giudizio civile d’appello, nel quale, dopo la riforma dell’art. 342 c.p.c. e la coeva introduzione del «filtro» da ragionevole probabilità d’accoglimento, molti avvocati hanno adottato modelli che dissezionano la sentenza impugnata e lo stesso atto introduttivo del gravame, aggiungendo, spesso a mo’ di premessa, una specifica trattazione, a volta assai ampia, finalizzata esclusivamente a superare il vaglio di ammissibilità (B. Capponi). Ed un fenomeno analogo si è verificato nel giudizio di cassazione a causa del sistema, poi abbandonato, dei «quesiti di diritto» e della conversione del vecchio vizio di motivazione in altro, imbastito soprattutto attorno all’art. 360, n. 4), c.p.c.: di queste riforme legislative di certo non si è avvantaggiata la brevità degli atti (B. Capponi).
Indagando sulle cause del fenomeno, si sarebbe anche notato che, a prescindere dalla fisiologica difficoltà nell’applicazione del canone di sinteticità, che riflette il carattere di ciascun soggetto ed il suo modo di affrontare i problemi (G. Ferrari), la ripetizione delle argomentazioni talvolta tradisce la preoccupazione dell’avvocato di convincere della loro validità un giudicante spesso in bilico tra contrastanti interpretazioni giurisprudenziali (basti pensare alla strabordante casistica sull’art. 38 del codice dei contratti pubblici), tal’altra – è il caso delle memorie il cui testo riproduca pressochè integralmente quello dell’atto introduttivo – è dovuta al convincimento che il giudice si limiti a leggere l’ultimo atto difensivo presentato, guardandosi bene dal rileggere i precedenti. Invero, per evitare gli atti «obesi» sarebbe talvolta sufficiente anche solo evitare le inutili ripetizioni: è frequente, ad es., che i fatti vengano dapprima esposti dall’avvocato nella c.d. parte «in fatto», salvo poi essere ripetuti nella parte «in diritto» a fianco del ragionamento giuridico che viene lì svolto, ovvero che vengano svolte considerazioni giuridiche già nella parte in fatto, nella quale ci si dovrebbe limitare ad esporre la vicenda in modo del tutto asettico e neutrale. Per essere brevi ed al contempo dire tutto, occorre, poi, il tempo necessario per rivedere l’atto e siccome questo tempo spesso manca, dopo aver fissato le idee di getto sulla carta (anzi, sul computer), si omette di riordinare il testo e di eliminare tutta la zavorra che lo appesantisce.
Il secondo rilievo metodologico che va mosso alle disposizioni che stiamo analizzando concerne l’intima ratio che le anima, cioè l’idea di fondo che la violazione del dovere di sinteticità possa accertarsi sulla base di parametri meramente quantitativi.
Già nel commentare la decisione del Consiglio di Stato che aveva ritenuto di sanzionare con l’integrale compensazione delle spese di lite la violazione del dovere di sinteticità posta in essere dalla parte risultata vittoriosa, era stato notato che «[u]n atto sintetico […] non necessariamente è anche esaustivo; così come un atto corposo non per forza deve essere prolisso, ripetitivo o ridondante. […] Il parametro quantitativo non può essere elemento sufficiente per ritenere violato il dovere di sinteticità, ove non sia correlato ad elementi qualitativi, atti a comprovarne la prolissità» (S. Ingegnatti). E’ per queste ragioni che – com’è stato autorevolmente affermato (F.G. Scoca) – la determinazione in via autoritativa delle «dimensioni del ricorso e degli altri atti difensivi» è «una misura grezza, che può non raggiungere affatto, e può anzi ostacolare, il raggiungimento dell’obiettivo dello «spedito svolgimento del giudizio». Ciò che conta è che l’esposizione dei motivi di ricorso sia chiara e, da parte avversaria, sia altrettanto chiara l’esposizione delle ragioni che si oppongono al loro accoglimento. In definitiva, «[g]li atti processuali di parte devono essere redatti in modo da consentire al giudice di impadronirsi rapidamente e senza incertezze della materia del contendere; e questo non si concilia necessariamente con la brevità degli atti». A tal proposito, va pure considerata la peculiarità del contenzioso in materia di contratti pubblici: non è certo casuale che, di recente, un autorevole magistrato amministrativo, dopo avere richiamato il ricordo personale della sua prima camera di consiglio, nella quale un altrettanto autorevole presidente della Quarta Sezione, a fronte di un appello di circa 15 pagine in una complessa vicenda espropriativa nella quale era stato dato torto all’appellante, aveva osservato che, «del resto, difficilmente chi abbia ragione ha bisogno di scrivere tanto», non abbia potuto far a meno di affermare subito dopo – con ciò implicitamente bollando come troppo semplicistica siffatta affermazione – che «[è] innegabile che l’attuale complessità delle questioni e della normativa sostanziale, oltremodo e spropositatamente complicata e infarcita di oneri formali, richiede spesso una più approfondita trattazione delle questioni» (F. Patroni Griffi).
Le considerazioni, per così dire, di tecnica redazionale po’anzi svolte inducono a tornare sui rapporti tra sinteticità e chiarezza.
Secondo i linguisti, un testo può dirsi sintetico qualora manchino frasi e parole superflue che ribadiscano concetti ed argomenti già enucleati; la chiarezza è, invece, predicabile in presenza di un testo di immediata comprensione e dipende dal vocabolario usato, dalla lunghezza dei periodi, dall’impiego di frasi semplici ovvero complesse (con subordinate o molte incidentali) (così, proprio con riferimento alla sentenza amministrativa, M.A. Cortelazzo). Un atto difensivo può, dunque, ritenersi sufficientemente breve quando evita di dire con 100 parole ciò che può dirsi con 10; ma ciò non assicura che esso sia anche chiaro, cioè comprensibile, a tal fine occorrendo che vengano fornite al giudice informazioni in misura né maggiore né minore di quanto necessario ai fini della decisione. Nella prospettiva del legislatore, i due principi si completano reciprocamente, esprimendo entrambi «l’esigenza che l’attività processuale non sia superflua e non si manifesti in atti giudiziari prolissi e defatigatori. A tal fine, la sola brevità non è sufficiente, è necessario che dagli atti emerga con la maggiore precisione possibile l’oggetto del contendere, sul quale si concentrerà l’attività delle parti e dei giudici. […] La concreta attuazione del principio di sinteticità non sembra così potersi ridurre al mero rispetto di un limite numerico di pagine; un atto sintetico e non chiaro, infatti, finisce ugualmente per incidere in maniera negativa sulla ragionevole durata del processo» (A. Giusti). Ebbene, se teniamo conto di tutto ciò, ci rendiamo conto che la brevità, omaggiata financo da Calamandrei nel suo celeberrimo Elogio, rappresenta talvolta un’utopia, un obiettivo irraggiungibile. Come si può essere brevi quando: la controversia poggia su una base normativa più volte modificata, come il codice dei contratti pubblici? la controversia stessa deve tenere conto di una pluralità di fonti (sempre pensando agli appalti: regolamenti e direttive comunitarie, sentenze della Corte di giustizia, leggi statali, sentenze costituzionali, regolamenti statali, leggi regionali, provvedimenti dell’A.N.A.C., capitolati generali e speciali, bandi di gara)? la giurisprudenza amministrativa muta da un giorno all’altro? la disciplina processuale è densa di preclusioni e formalismi in rito? i termini a difesa sono talmente ridotti che manca il tempo per una rifinitura dell’atto? (J. Rudi). In un contesto del genere, sintetizzare è, evidentemente, «opera di maggiore difficoltà rispetto a quella, tendenzialmente più semplice, di appesantire gli atti con tutto ciò che, acriticamente, può apparire utile aggiungere per l’esito positivo del giudizio» (A.G. Pietrosanti).
Il legislatore, dal canto suo, dovrebbe provare ad intervenire anche sulle suindicate cause della prolissità, anziché imputarne la colpa esclusivamente agli avvocati, financo tacciati di abuso del processo.
Sul punto, va una volta per tutte sgombrato il campo da un equivoco: com’è stato dimostrato, con dovizia di argomenti, da autorevoli processualisti, la violazione del principio di sinteticità non può essere catalogata come ipotesi di abuso del processo. Per qualificarlo «abusivo», occorrerebbe, infatti, individuare di volta in volta lo scopo – id est, il contenuto o la «causa» – dell’atto e dimostrare che lo stesso ha deviato rispetto allo scopo così individuato, mentre la prolissità non costituisce, in se e per sé, mancanza di coerenza con lo scopo (F. Cordopatri). Per configurare abuso del processo, in altri termini, si dovrebbe distinguere il caso in cui l’eccesso di scrittura è sintomo dell’imperizia dell’avvocato da quelli in cui l’obiettivo manifesto è solo quello di indurre confusione, di nascondere l’informazione decisiva tra mille altre irrilevanti ai fini della decisione o anche soltanto di allungare i tempi del processo; ed è del tutto evidente che una siffatta distinzione non può certo basarsi su criteri meramente quantitativi (R. Caponi). Se ne trae l’ennesima conferma di come l’abuso del processo stia diventando – al pari del principio di effettività – una sorta di contenitore buono a tutti gli usi (nella sua recente e pregevole monografia sul tema, G. Tropea evidenzia la «persistente visione giurisprudenziale di un carattere plurioffensivo dell’abuso del processo»). Proprio in considerazione di ciò, prima dell’avvento del decreto legge n. 90 del 2014, non mancava chi riteneva addirittura ovvio che né il codice del processo amministrativo (fatto salvo l’art. 26, comma 1) né la proposta della Commissione Vaccarella prevedessero sanzioni per la violazione del canone della sinteticità degli atti, trattandosi di prescrizioni destinate ad incidere sul «costume», a suggerire buone pratiche, «ma che appaiono, allo stato, sfornite di qualsiasi efficacia costrittiva». Si affermava, in altri termini, che tale canone «non è una vera “regola di legge”; è un principio tendenziale che deve poter ispirare comportamenti, condotte “virtuose” che appartengono al “buon vivere” nel processo; non anche doveri presidiati da autonome sanzioni» (B. Capponi).
Per concludere, due problemi esegetici.
Il primo concerne le conseguenze del superamento dei limiti dimensionali degli atti difensivi, come delineate dal novellato art. 120, comma 6, c.p.a., secondo cui «[i]l giudice è tenuto ad esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti; il mancato esame delle suddette questioni costituisce motivo di appello avverso la sentenza di primo grado e di revocazione della sentenza di appello».
Ebbene, se non si vuole operare una vera e propria forzatura del dato normativo, che si limita a sanzionare, con l’attribuzione alla parte danneggiata dal comportamento del giudice del diritto di impugnare, esclusivamente il mancato esame delle questioni prospettate dalle parti nel rispetto del dovere di sinteticità, ci si deve limitare a parlare di diritto del giudice di non leggere le pagine eccedenti (ciò che, di per sé, già fa storcere il muso a chi, per essere ascoltato da un giudice, ha pagato decine di migliaia di euro a titolo di contributo unificato!), ma non si può in alcun modo affermare che «l’avere esaminato, da parte del giudice, questioni trattate nelle pagine ulteriori il limite, potrà costituire vizio della sentenza, ai fini dell’appello o della sua revocazione» (così C. Volpe). Ciò, oltre a non potersi in alcun modo desumere dalla (pur reticente: N. Saitta) norma, sarebbe contro il comune buon senso: perché punire il giudice zelante, che fa più del suo dovere semplicemente per erogare giustizia a chi la chiede?
Il secondo dubbio interpretativo attiene alla procedura prevista al punto 11 del decreto presidenziale per essere autorizzati a derogare ai rigidi limiti dimensionali dell’atto. Sul punto, concordo con F. Volpe, secondo cui la lettera della norma, pur prestandosi ad una duplice interpretazione, conforta l’idea che l’istanza debba essere presentata prima della notificazione e del deposito del ricorso introduttivo, dimodochè l’autorizzazione possa essere notificata «unitamente al ricorso» stesso, come appunto prevede il decreto. Permangono, però, gli inconvenienti pratici segnalati dallo stesso A.: chi intenda superare il numero delle pagine consentito avrà meno tempo a disposizione per redigere l’atto, il che appare un paradosso visto che si tratterà sovente di un atto particolarmente complesso, che proprio per questo non può essere contenuto nelle 30 pagine; a sua volta, il giudice chiamato a pronunciarsi sulla domanda di autorizzazione alla deroga dovrà comunque leggere una bozza dell’atto difensivo, salvo poi addirittura rileggerlo nella successiva versione sintetica nel caso in cui la deroga non fosse accordata.
In conclusione, siamo alle prese con un articolato normativo che appare non soltanto opinabile dal punto di vista della scelta di politica legislativa, sempre più spesso connotata dall’introduzione di misure deflattive che si pongono al confine con inammissibili misure di deterrenza verso la tutela giurisdizionale (A. Mutarelli), ma anche sotto il profilo prettamente lessicale. Lo stesso legislatore, del resto, è consapevole di maneggiare uno strumento sperimentale, tanto da aver all’uopo espressamente previsto un biennio entro cui il Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa dovrà monitorare gli esiti di tale sperimentazione (il tutto, peraltro, senza chiarire se, alla scadenza del biennio, nelle more del monitoraggio, continueranno ad applicarsi o meno le disposizioni contenute nel decreto presidenziale: sul punto, amplius, N. Saitta).
Ancora una volta, chi vivrà vedrà.
Articolo pubblicato su Lexitalia